Arcipelago

Monte Elci, tra Toffia e Fara Sabina

Proprio al centro del Lazio, nel punto dove i Monti Sabini sfumano nella collina, c'è una zona che raccoglie molteplici motivi di interesse: quella attorno al Monte degli Elci, che domina le due antiche città di Toffia e Fara in Sabina.

L'itinerario si snoda per boschi di lecci centenari con un sottobosco ricco e coloratissimo, dove vivono ancora ben nascosti istrici e tartarughe; e congiunge due città in bilico tra Medioevo e presente, che conservano angoli rimasti intatti nei secoli e non conoscono il turismo di massa.

L’area è in gran parte compresa in una Riserva in cui è vietata la caccia. Esistono vincoli architettonici nei centri storici urbani

Dove?

Siamo in Sabina, nella zona centrale del Lazio. L'itinerario si snoda tra i centri di Toffia e Fara in Sabina, nella parte sud della provincia di Rieti quasi ai confini con quella di Roma. Ambedue le località distano un'ottantina di chilometri da Roma.

Quando?

Il periodo migliore è sicuramente la primavera per le spettacolari fioriture; ma anche in pieno inverno il clima temperato della Sabina permette delle splendide passeggiate nelle numerose e limpide giornate di sole.

 

I TEMPI.

La durata dell'intero percorso è di 6 ore circa, di cui: 30 minuti per la visita a Toffia, 4 ore per arrivare a Fara in Sabina e 1 ora e mezza per il ritorno.

AlI 'Abbazia di Farfa sono organizzate visite guidate ogni mezz'ora dalle 9,30 alle 18 con intervallo dalle 12,00 alle 15,30.

Come? -

IN AUTOMOBILE.

Da Roma si prende la statale n. 4 (via Salaria) in direzione Rieti fino a Passo Corese; al semaforo girare a sinistra e seguire le indicazioni per Toffia.

Arrivati a circa 100 metri dall'abitato di Toffia inconfondibile perché situata sopra una rupe sulla destra una salita segna l'inizio dell'itinerario naturalistico.

Qui conviene lasciare l'auto (poco prima della curva a tornante che precede l'abitato).

IN TRENO +AUTOBUS.

Da Roma linea FM1 (Fiumicino aeroporto Fara Sabina) partenze ogni 15 min da ogni stazione linea urbana FS Trenitalia. Arrivati alla stazione di Fara Sabina prendere le corriere della compania COTRAL s.p.a..

L'EQUIPAGGIAMENTÒ.

E' preferibile calzare scarponcini o comunque scarpe robuste con suola scolpita per la presenza di rocce nella parte alta del percorso. E' sempre consigliabile portare con se lo zainetto,

binocolo, macchina fotografica ed eventuali guide della flora. Cartografia: IGM 1:25000 144 I SO "Fara in Sabina".

I posti

L'itinerario parte da Toffia: siamo in una zona in cui numerosi reperti archeologici testimoniano la presenza di insediamenti umani risalenti fin da circa 2000 anni a.C. Raggiunse il suo momento di maggior densità abitativa al tempo dei Romani, come dimostrano i resti delle città di Cures, Fidenee Gabi; in epoca più recente l'area fu invece popolata in modo parcellizzato da nuclei familiari sparsi in casali.

 

Toffia. Intorno al X secolo, a causa delle scorrerie dei Saraceni, gli abitanti della Sabina furono costretti a raccogliersi in località facilmente difendibili, dando vita a costruzioni fortificate dette podiuum. Anche Soffia, come si osserva dalla sua posizione, ha avuto questa origine.

La leggenda narra che il blocco roccioso su cui si erge Soffia un tempo facesse parte del Monte degli Elci, ma che a un certo punto si sia staccato e sia precipitato a valle; la situazione si stabilizzò con la formazione di due blocchi, chiamati rispettivamente "Sasso Mosso" e "Sasso Fermo".

Nella chiesa di San Lorenzo, di epoca longobarda, venne ritrovata una pergamena con notizie relative alle origini di Toffia: un certo Iacoprando d’Amiterno, sfuggendo alle distruzioni saracene, ottenne da Giovanni abate di Farfa, che ne era proprietario, il permesso di abitare in una località detta Topaia; la rocca era un ottimo rifugio per sé e per i suoi uomini.

In seguito il marchese di Spoleto di nome Teobaldo chiese all’abate di Farfa il permesso di erigere nella località un castello. In un primo momento l’abate gli negò l’autorizzazione, temendo che da questa posizione il marchese potesse prendere facilmente il sopravvento sull’abbazia; seguì una trattativa che si risolse con il permesso accordato a patto che il marchese occupasse solo la metà del castello, mentre la restante metà doveva restare sotto la giurisdizione dell’abate.

La via Grottuccia segnava il confine fra la proprietà dell’abate di Farfa e quella del marchese di Spoleto; in seguito segnò il confine delle proprietà di due famiglie romane, gli Orsini e i Colonna e la storia di Toffia, nonostante abbia sempre contato pochi abitanti, è quella di due comunità divise e rivali fra loro fino al punto di avere vita separata con due distinti ingressi alla città e due rispettivi forni.

Ripercorrendo un tratto della strada asfaltata per la quale si è arrivati, dopo la curva a tornante, parte sulla sinistra la carrareccia segnata con i colori rosso-giallo-blu che porta sulla cima di Monte Elci.

La si segue andando sempre dritti per la strada principale e alzandosi da quota 266 a 569 metri; qui si trova un fontanile con un abbeveratoio per animali.

In questa prima parte del cammino oltre a diversi scorci suggestivi della rocca di Toffia, in agosto-settembre si può gustare qualche frutto di mora. Arrivati al fontanile ci si può rifornire d'acqua: contornano la vasca molte felci e, più in alto, qualche faggio.

 

Per adesso abbiamo percorso la parte più faticosa e meno interessante dell'itinerario: proseguendo diritti sul sentiero si arriva a un avvallamento in cui il sentiero perde: sulla destra c'è il Monte degli Elci, la cima più alta e di fronte, arroccata su una cima e con il caratteristico castello Orsini, si vede la cittadina di Nerola.

Per procedere verso la vetta del monte occorre seguire i segni gialli o comunque seguire più o meno la cresta; accanto al sentiero spiccano i bei fiori dell 'eringio ametistino, che con l'avanzare dell'estate diventa interamente color viola-bluastro in contrasto con il terreno brullo.

E' una pianta spinosa che vive in luoghi aridi; in autunno il fusto stacca naturalmente e, secco e leggero, viene trascinato via dal vento.

Il cammino prosegue costeggiando un bel bosco costituito prevalentemente da lecci (ricordiamo che "elce" da queste parti significa appunto leccio); qua e là s'incontra bestiame al pascolo. Verso la cima il terreno diventa sempre più roccioso, trasformandosi in un suggestivo paesaggio in pietra.

Chi ama i giardini rocciosi può gustare un'amplissima collezione di specie: dalle diverse sassifraghe alle crassulacee come la caratteristica "erba da calli forma tappeti folti di foglie globose e carnosette, lunghe 3-5 millimetri; i suoi piccoli fiori sono a forma di stella; color giallo vivo, e fioriscono in giugno-luglio.

Si sale così fino ad arrivare alla vetta del Monte degli Elci: qui c'è un caratteristico leccio a forma di fungo, con il tronco circondato da arbusti.

Se la giornata è limpida si può spaziare con lo sguardo per un ampio tratto della catena appenninica: vicinissimo, in direzione nord-est, c 'è il Terminillo; dalla parte opposta si vedono Roma e la sua pianura. Il monte che si scorge verso sud-est è il Monte Pellecchia.

Si procede poi, scendendo un poco, verso il Colle Termineto; lungo il cammino numerosi fori nel terreno segnalano la presenza di tane delle inoffensive tarantole.

La puntura della tarantola è velenosa solo per gli insetti di cui si nutre. I buchi che si vedono nel terreno sono gli sbocchi delle gallerie sotterranee in cui vivono, e da cui sbucano d’improvviso durante il giorno per aggredire le eventuali prede con assalti fulminei. Le tarantole escono dai loro rifugi per andare a caccia con l’oscurità ed è quindi più probabile vederle verso sera.

 

Oltrepassata la cima del colle si prosegue badando a rimanere sempre sul sentiero principale: ci si inoltra ora in una lecceta dal sottobosco molto ricco di tutte le specie floreali tipiche (viole, anemoni, primule, ranuncoli); se la camminata avviene a primavera inoltrata si avrà la sorpresa di trovarsi dinnanzi a un tappeto di ciclamini fitto al punto che risulta problematico evitare di calpestarli.

Oltre al leccio nel bosco sono presenti roverelle, cerri e aceri; nelle radure è facile trovare invece cespugli di ginestre e di ginepro. Abbondante anche il pungitopo.

La vera ricchezza della zona consiste però nella fauna: nelle ore crepuscolari è facile incontrare istrici, volpi e ricci; tutti, purtroppo, vittime frequenti sia delle auto sulle strade più a valle sia dei cacciatori di frodo, come testimoniano i molti bossoli delle cartucce o i lacci abbandonati in piena riserva. Sono abbastanza frequenti anche tartarughe e, nella zone di bosco più fitte, scoiattoli.

Mentre si sale non può passare inosservato il progressivo aumento di rocce modellate dal vento e dall'acqua come vere sculture naturali.

La loro storia ci porta molto indietro nel tempo: circa 200 milioni di anni fa, alla fine del Triassico, questa parte dell’Italia centrale era immersa in un mare caldo e poco profondo. In seguito, nel Lias medio, movimenti verticali cambiarono in alcune zone la profondità del mare; queste differenze di ambiente portarono a vari tipi di sedimentazione marina e, di conseguenza, a formazioni rocciose diversificate. Le rocce che vediamo affiorare sono calcaree; su di esse spesso è possibile osservare resti fossili di Gasteropodi e di Echinidi e di altri animali e vegetali microscopici, individuabili con l' aiuto di una lente.

 

Arrivati di fronte all'abitato di Fara Sabina si scende fino a uscire, dal bosco in una radura piana, con una piattaforma di cemento: su di essa si praticava un tempo il tiro al piattello, oggi abbandonato. Vicino a un vecchio ripostiglio per attrezzi c'è una tubatura da cui sgorga dell'acqua freschissima.

Chi ha voglia di visitare Fara in Sabina può proseguire lungo la strada, superando il Preventorio della Croce Rossa e salendo a sinistra: in breve si arriva alle mura del paese. E' uno stupendo borgo medioevale perfettamente conservato che, come tutti i centri della zona, era di proprietà e sotto la giurisdizione dell' Abbazia di Farfa. - Per ritornare a Toffia da Fara si deve però ripercorrere lo stesso sentiero e riguadagnare la radura - dell'ex tiro al piattello.

Si prosegue sul sentiero; appena entrati nella macchia, invece di salire ci si infila diritti nel bosco seguendo le indicazioni rosse-gialle-blu.

Il sentiero nel bosco corre lungo il fianco del colle, salendo leggermente per un tratto fino a incrociare un altro sentiero; da lì, prendendo sulla sinistra, si comincia a scendere. La discesa è dolce e prosegue per un lungo tratto nel bosco fino a sbucare su una stradina invasa dalla vegetazione: questa ci riporterà sulla carrareccia dell'andata per Monte Elci.

Basta percorrerla in discesa per tornare poco dopo al punto di partenza.